In Serbia una massiccia serie di proteste ha portato alle dimissioni del primo ministro Milos Vucevic, accusato di corruzione e di scarsa attenzione al problema del collasso di una stazione ferroviaria a Novi Sad che ha causato 15 morti l’1 novembre scorso e scoperchiato gravi problemi legati alla corruzione negli appalti pubblici e nella gestione dell’infrastruttura del Paese balcanico. Al contempo, in Slovacchia proseguono da settimane le proteste della borghesia urbana di Bratislava e delle altre principali città, come Kosice, contro Robert Fico, primo ministro del Paese centroeuropeo, accusato di un’eccessiva apertura di credito alla Russia di Vladimir Putin.

Due proteste parallele, due Stati centrali per i rapporti Est-Ovest che si scaldano, un minimo comune denominatore: la rottura tra i governi a sfondo populista e nazionalista, interpreti del cuore profondo del Paese in tempi incerti, e la classe media urbana e la corrispondente società civile che non sono disposti a barattare il recupero di prestigio e influenza sulla scena internazionale con l’abbandono di trasparenza e etica nei rapporti

politici interni e internazionali. Fico e Aleksandr Vucic, il presidente serbo, hanno accusato le Ong straniere di interferenze e fanno riferimento al rischio di una “nuova Maidan” presentandosi come leader di Stati che rischiano di fare la fine dell’Ucraina del 2014 per le loro agende scomode e spesso poco allineate all’Occidente. Ma sempre più appare chiaro come in questi Paesi dalla giovane democrazia l’enfasi di cosa debba essere considerato “interesse pubblico” è sempre più divisa tra centro e periferia, tra élite politica e società civile. Per Fico e Vucic viene prima il prestigio del Paese, lo scaltro uso del potere negoziale sui tavoli internazionali, l’arte del compromesso situazionista, per altri l’adesione a valori ritenuti universali di libertà, giustizia e trasparenza. Il rischio incomunicabilità è altissimo.