Donald Trump l’ha chiamato il “Giorno della Liberazione”: quando il 2 aprile gli Usa hanno visto il rilancio dei dazi da parte dell’amministrazione repubblicana, Washington ha segnato un profondo rafforzamento della sua strategia economica protezionista. La tutela del mercato interno è tornata ad essere nell’ultimo quindicennio una priorità per la potenza a stelle e strisce e Trump amplifica all’ennesima potenza una strategia messa in campo già nel suo primo mandato, ma di cui si sono visti gli eco anche nell’era dei colleghi democratici Barack Obama e Joe Biden.
“Da almeno 150 anni non si erano visti dazi tanto elevati e su un numero così grande di Paesi. Ma 150 anni fa le importazioni americane erano in proporzione meno di un terzo di quello che sono oggi”, ha scritto sul sito dell’Osservatorio Conti Pubblici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore il suo co-direttore, l’economista Giampaolo Galli, aggiungendo che “il azio medio imposto da Trump supera il 20% e rappresenta uno shock all’economia mondiale maggiore di quello causato da Hoover nel 1930 con il famigerato Smoot-Hawley Act, che contribuì a esportare la recessione americana nel resto del mondo e a scatenare una guerra commerciale fra tutte le maggiori potenze”.
Il neo-protezionismo americano ha però radici diverse da quello del passato. Ieri si trattava di mercantilismo allo stato puro, mentre nell’era presente gli Usa mirano a riequilibrare quelle che ritengono essere le storture intrinseche di una globalizzazione che hanno creato, incentivato e cavalcato prima di veder il nocciolo duro della loro manifattura prosciugato dalla concorrenza di attori di vario calibro: Giappone, Corea del Sud, Germania e, soprattutto, Cina, non a caso i Paesi maggiormente attenzionati da Trump nella sua guerra commerciale. Obama e
Biden hanno avviato il contenimento anti-cinese in campo militare e geoeconomico, alzato il livello della sicurezza sui settori strategici introducendo di fatto il protezionismo sotto forma di leva contro gli investimenti di Pechino in aziende strategiche e tecnologiche americane, con buona pace dei principi della globalizzazione coltivata dalle amministrazioni Clinton e Bush jr. Inoltre, nel 2014 Obama ha lanciato, dopo gli ammiccamenti di Berlino con la Russia, la guerra economica a fari spenti alla Germania che negli anni ha visto Washington contrastare duramente l’industria tedesca: il Dieselgate della Volkswagen, gli attacchi regolatori americani a Deutsche Bank, la sfida totale alla Russia sull’energia sono parte dello stesso
puzzle. Biden, da presidente, con l’Inflation Reduction Act e il Chips Act ha usato la leva degli investimenti diretti finanziati dal governo per potenziare il mercato interno e tutelarlo dalla concorrenza straniera. Trump scende in campo con l’ascia e usa la mossa dei dazi alzando i paletti attorno a sé e all’America. Forse illuso di poter ritirare l’America da quel grande oceano che è la globalizzazione ed è, essenzialmente, un prodotto americano.