La fine del confronto tra Israele e Iran potrebbe portare con sé anche un ammorbidimento definitivo dei rischi di una chiusura dello Stretto di Hormuz, cruciale via d’acqua su cui passano il 20% delle forniture mondiali di petrolio nella fascia di mare di 50 km che divide l’Oceano Indiano dal Golfo Persico. L’Iran ha paventato questa idea mentre rispondeva all’offensiva israeliana come ritorsione contro l’appoggio occidentale a Teheran, ma alla prova dei fatti per dodici giorni non c’è stata alcuna interruzione dei flussi di petrolio. Pesa il fatto che la maggior acquirente di greggio su questa rotta è la Cina, che compra 5,5 dei 20 milioni di barili che escono ogni giorno via nave da Hormuz, ma anche la difficoltà dell’Iran a imporre effettivamente tale blocco.
Al contempo, però, segnaliamo che nei giorni di guerra dopo una fiammata iniziale il prezzo del petrolio ha retto e si è tenuto poco sopra i 75 dollari al barile, senza fiammate eccessive. L’annuncio del cessate il fuoco li ha riportati sotto i 70 dollari, ai livelli pre-conflitto, anche perché gli operatori hanno mantenuto un atteggiamento cautelativo.
In primo luogo, il fatto che il greggio abbia continuato a fluire ha avuto una rilevanza notevole, con al massimo pochi tanker che, come ha fatto notare Gianclaudio Torlizzi su Linkedin, ha deviato per precauzione ha mantenuto la barra dritta del timone. In secondo luogo, nell’orientare in maniera opposta a un’escalation di prezzi ha pesato la spinta attiva dei Paesi Opec+ ad alzare l’offerta di petrolio dopo tre anni di compressione artificiale. Infine, anche la speculazione finanziaria non ha impattato perché, ricorda Torlizzi, “le posizioni long sul Brent erano ai massimi da cinque anni”. E non c’era margine di manovra per espanderle. Anche l’economia globale tira il fiato.