Un’intesa siglata con grande enfasi alla Casa Bianca, una guerra che dura da trent’anni e una regione ricchissima di risorse contesa da potenze internazionali e attori regionali. La firma dell’accordo preliminare di pace tra la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Ruanda, avvenuta il 27 giugno a Washington con la mediazione degli Stati Uniti e del Qatar, potrebbe sembrare un passo decisivo verso la fine delle ostilità nell’Est del Paese africano. Ma a ben vedere, dietro le foto ufficiali e le dichiarazioni ottimistiche, si cela una realtà molto più complessa e instabile.

Sottoscritto dai presidenti Félix Tshisekedi (RDC) e Paul Kagame (Ruanda), con il sostegno del presidente americano Donald Trump e del segretario di Stato Marco Rubio, l’accordo, come riassume “Rivista Africa”, prevede il disarmo delle milizie armate, la fine delle violenze, il rispetto dei confini nazionali e l’istituzione di un meccanismo congiunto di sicurezza. Tra gli impegni, figurano anche il ritorno dei rifugiati, il ripristino dell’accesso umanitario e l’avvio di una integrazione economica regionale.

La firma dell’accordo di Washington giunge in un frangente estremamente critico per la Repubblica Democratica del Congo. Nei primi mesi del 2025, il gruppo armato M23 ha intensificato le operazioni militari, riconquistando Goma e diverse altre città strategiche nel Nord Kivu. Come scritto su “Notizie Geopolitiche”, secondo le Nazioni Unite e numerose ONG internazionali, dietro l’avanzata ci sarebbe il sostegno diretto del Ruanda, accusa sistematicamente respinta da Kigali. Gli scontri hanno provocato migliaia di vittime e generato un esodo di proporzioni imponenti: milioni di civili costretti a fuggire dalle proprie case.

Il disarmo del M23 e il ritiro delle forze straniere dal territorio congolese sono considerati due passaggi indispensabili per trasformare l’intesa diplomatica in una pace concreta, nota Sky Insider. Ma il conflitto che insanguina l’est del Paese ha radici ben più profonde. Da oltre trent’anni, quest’area è un epicentro di instabilità dove si intrecciano tensioni etniche irrisolte, ambizioni territoriali, rivalità regionali e la lotta per il controllo di immense risorse naturali. Il M23 si è distinto per gravi violazioni dei diritti umani, come documentato da numerosi rapporti delle Nazioni Unite. Inoltre, la presenza militare ruandese in Congo resta uno dei principali ostacoli a una vera pacificazione. Al centro di tutto, però, ci sono le risorse del Paese.

naturali. Le province orientali della RDC sono tra le più ricche al mondo di coltan, cobalto, tantalio, litio, rame, oro – materiali strategici per l’industria tecnologica, l’energia verde e la difesa. Il Ruanda è da anni accusato di aver beneficiato dell’estrazione illegale e del traffico di minerali attraverso milizie locali.

Secondo il Centre for Strategic and International Studies (CSIS), l’accordo di Washington è stato pensato anche come un Critical Minerals for Security and Peace Deal”: una piattaforma per garantire agli Stati Uniti accesso diretto alle materie prime strategiche, riducendo la dipendenza dalla Cina, che oggi controlla una quota rilevante delle miniere congolesi, in particolare quelle di cobalto.

Il sospetto è che, più che la pace, a guidare la diplomazia sia il desiderio americano di contenere l’influenza cinese nella regione. In cambio, Washington offrirebbe investimenti infrastrutturali, cooperazione energetica e intese bilaterali, anche su temi sensibili come l’accoglienza e il rimpatrio dei migranti, sul modello dell’accordo UK-Ruanda.

Nonostante il clamore mediatico, la firma del 27 giugno non è il primo tentativo di accordo tra Kinshasa e Kigali. Diversi protocolli e cessate il fuoco sono stati siglati negli ultimi anni, senza risultati concreti, anche perché l’M23 non ha mai partecipato direttamente ai negoziati. E nemmeno questa volta era presente al tavolo.

Il rischio è che anche questo nuovo trattato si riveli una tregua di convenienza, più utile per sbloccare investimenti e coprire operazioni diplomatiche, che per affrontare le cause profonde del conflitto: questioni identitarie, esclusione sociale, mancato riconoscimento di cittadinanze, accesso alla terra e controllo delle risorse.

L’AFRICA DELLE TENSIONI E QUELLA “VIRTUOSA”

Non solo Congo e Ruanda. Quali sono gli scenari critici da osservare? E chi si chiama fuori?

Non c’è solo la guerra in Congo a perturbare l’Africa. Diversi scenari critici stanno da tempo condizionando il continente più strategico e conteso al mondo. Seguendo l’Africa orientale verso Nord, dal Congo si arriva all’area tra Kenya e Somalia, Paese quest’ultimo contraddistinto dall’insurrezione degli Al-Shabaab, gruppo estremista islamico sunnita, e dalla secessione del Somaliland, la parte ex britannica del Paese che fu colonia italiana. Un coacervo geopolitico in un’area critica che insiste sul Mar Rosso e gli stretti.

L’Etiopia è un’oasi di relativa stabilità dopo la violenta guerra del Tigray e dopo che Addis Abeba è riuscita a chiamarsi fuori dal conflitto più duro e viscoso dell’Africa a Nord dell’acrocoro abissino: la guerra civile sudanese, tra il governo centrale e le Forze di Supporto Rapido del generale Hemmeti, già tristemente protagonisti del genocidio in Darfur. Pericola verso una nuova guerra civile anche il Sud Sudan, cinque anni

dopo la mediazione del Vaticano per porre fine alla precedente, e a Ovest il Sahel è pieno di caos geopolitico e tensioni strategiche tra un’ondata di colpi di Stato che hanno rovesciato negli ultimi anni molti governi (Niger, Burkina Faso, Mali) e la parallela presenza dell’insorgenza jihadista (accentuata in tutti e tre i Paesi, dominante in Burkina Faso) e della rivalità tra Occidente e Russia per l’influenza militare. Il rischio di una saldatura tra il buco nero libico, quello del Sahel e la crisi in Sudan è un’ipotesi di studio non esclusa da alcuno stratega. A Sud, l’Africa presenta invece anche l’insorgenza dell’Isis a Cabo Delgado, nel Mozambico ricco di risorse naturali.

Di fronte a questa crisi, c’è però anche qualche notizia positiva da presentare per l’Africa. Il Botswana ha conosciuto la sua prima pacifica transizione di potere in maniera democratica, il Gabon è tornato alla democrazia dopo la caduta del regime della famiglia Bongo e tra una Nigeria che ha superato l’insurrezione di Boko Haram e una Costa d’Avorio rampante anche l’Africa occidentale presenta semi di speranza.