A inizio novembre ha fatto molto discutere quanto dichiarato dal Ceo di Nvidia, Jensen Huang, secondo cui la Cina avrebbe ormai messo la freccia sugli Usa in materia di competizione sull’intelligenza artificiale. Il magnate di origine taiwanese, titolare del colosso più capitalizzato al mondo e azienda decisiva per la produzione degli strumenti computazionali e digitali che abilitano l’IA generativa, ha parlato per dare una scossa a Washington. Nvidia resta l’azienda indispensabile: nei conti presentati il 19 novembre ha annunciato una crescita del fatturato trimestrale annuo del 62% e un portafoglio ordini di 500 miliardi di dollari. Teme, però, che il “sanzionismo” americano, la spinta dell’amministrazione di Donald Trump a cercare il braccio di ferro con Pechino e il disaccoppiamento delle filiere istighino la rincorsa della Cina.
A suo modo, gruppi come Huawei ci stanno già provando a sostituire le tecnologie occidentali con chip cinesi nei maggiori apparati tecnologici cinesi. Huang, che conosce la mentalità orientale, sa che la privazione di tecnologie critiche può contribuire a stimolare l’effetto-sostituzione cinese. Certo, i chip Nvidia restano molto più efficienti di quelli cinesi in termini di consumi, ma la Cina ha almeno due armi dalla sua: la possibilità di creare immediate economie di scala da un lato, la presenza di un sistema energetico resiliente e colossale capace di resistere a picchi di ogni tipo in materia di interconnessione dall’altro. Negli ultimi mesi è emerso tanto un boom di generazione rinnovabile quanto un progetto di abbattimento delle bollette energetiche ai data center per favorire l’espansione IA cinese. Washington prova a rimediare con la diplomazia, come dimostra la presenza di Huang al fianco di Donald Trump nella conclusione di molti accordi commerciali, dall’Arabia Saudita alla Corea del Sud. Gli Usa vogliono mantenere il vantaggio odierno per consolidarlo e rendere l’IA a stelle e strisce modello dominante anche all’estero. Ma Pechino non sta a guardare. E Huang lo sa.