La pomposa accoglienza riservata a Mohammad bin Salman, principe ereditario e primo ministro dell’Arabia Saudita, alla Casa Bianca il 18 novembre scorso ha presentato la più sfarzosa, e a tratti barocca, cerimonia del secondo mandato presidenziale di Donald Trump. Il fasto e l’ampiezza delle cerimonie presentano l’importanza del meeting che ha portato a Washington un leader passato in pochi anni dallo status di paria per aver ordinato l’omicidio di Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul nel 2018 a quello di moderno e innovativo leader mediorientale, decisivo per Washington. I tempi della politica riabilitano Mbs, e lo fa soprattutto l’immensa disponibilità di risorse del Regno delle Spade, che si è impegnato a investire circa 1.000 miliardi di dollari in dieci anni negli Usa, i quali sarebbero peraltro pronti a fornire a Riad i caccia F-35 nel contesto di un piano di acquisti militari da 142 miliardi.
Per l’Arabia Saudita, parlare agli Usa significa dare sfoggio della propria rilevanza e potenza. Per gli Usa, Riad ha valore d’uso come alleato, grande potenza petrolifera e presidio su Mar Rosso e Golfo Persico e valore di scambio in prospettiva della volontà di cercare la ricucitura definitiva tra lo Stato della Penisola Arabica e Israele, che per Washington coronerebbe il percorso dei cosiddetti “Accordi di Abramo” sulla distensione tra Tel Aviv e il mondo arabo. L’Arabia Saudita custodisce i luoghi santi dell’Islam ed è la prima potenza economica della regione, dunque una sua saldatura con Israele sarebbe decisiva. Trump vuole ammaliare Mbs per spingerlo all’avvicinamento, nonostante sia ancora aperta la questione di Gaza, e, al contempo, preme Benjamin Netanyahu per fare lo stesso, pur sapendo che Israele teme la concessione di armi avanzate a Riad. Nel mezzo, l’obiettivo strategico americano: creare un asse per fermare l’Iran. Ma la solidità di questa prospettiva, dopo due anni di scontri a Gaza, è tutta da provare.