La Bosnia torna a far parlare di sé nelle cronache internazionali, e lo fa principalmente in relazione alla torbida storia delle inchieste partite da Milano sui “safari” con cui facoltosi turisti europei venivano portati alle linee serbe, negli anni Novanta, per sparare sulla Sarajevo assediata. Una vicenda che, se confermata, aprirebbe uno squarcio drammatico sulla storia recente, e spesso dimenticata, dell’Europa meridionale, ma che ci consente di leggere la storia della Bosnia-Erzegovina in relazione al mai finito dramma balcanico. Per Sarajevo, anche trent’anni dopo gli accordi di Dayton che formalizzarono l’attuale assetto del Paese, è difficile trovare il confine tra storia e memoria, tra passato e presente.

La Bosnia attuale è figlia di una tregua, non di una pace, è un compromesso perennemente messo sotto scacco da parte di fattori destabilizzanti e intrusioni esterne. Il 23 novembre si sono tenute le elezioni presidenziali nella Repubblica Srpska, la componente della Bosnia che fa riferimento all’etnia serba, e sono state vinte da Sinisa Karan, delfino del deus ex machina del separatismo serbo-bosniaco Milorad Dodik, in aperto contrasto con l’autorità federale di Sarajevo. Dodik è stato destituito dall’incarico dopo aver ricevuto una condanna per attività anticostituzionale, rifiutandosi dapprima di riconoscere la sentenza e soffiando poi sul fuoco di un velato separatismo. Vicino a Vladimir Putin e alla Russia, Dodik e il suo partito, l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd), mettono in dubbio l’unità nazionale bosniaca. E mostrano la fragilità del costrutto degli Accordi di Dayton che trent’anni fa crearono il Paese che oggi conosciamo. In perenne bilico tra un passato tragico e un futuro incerto.